I Giovedì - gruppi chestertoniani veronesi       in dettaglio

 

IL RITORNO DI DON CHISCIOTTE di G.K. Chesterton

Morganti –  2012

(The Return of  Don Quixote  – 1927)  

Note di Cesare E. Surano

 

A) Lunga Premessa

Circa 44 anni fa mi trovavo a “passeggiare” per le montagne dell’Himalaya.   Ero da quelle parti per preparare il Piano di fattibilità delle strade del Nepal in nome del Governo locale e per conto delle Nazioni Unite (UNDP).   Il progetto, nelle sue varie fasi ed articolazioni, si è protratto per oltre tre anni e mi ha permesso di conoscere a fondo il territorio, percorrendo, in gran parte a piedi (oltre mille chilometri), a cavallo, con la jeep e con qualche STOL, più di 50 Distretti (Zilla) dei 75 in cui è diviso il Paese e tutte e 14 le sue Regioni (Anchal).   Ventitre i volumi–rapporto preparati.

Nel quadro delle “field investigations”, quelle che noi tecnici internazionali di tre continenti (31 fra ingegneri, economisti, agronomi, geologi, architetti, etnologi, geotecnici, topografi, ecc.) chiamavamo, in italiano per tutti, “scampagnate”, si viveva la vita dei giovani esploratori superando le difficoltà delle varie stagioni, dei diversi climi, delle particolari realtà locali, della convivenza con le numerose etnie con i loro costumi, tradizioni, culture e religioni, dei problemi alimentari e igienico-sanitari.   Al di là di tutto questo, le barriere linguistiche e il lavoro di investigazione e raccolta dati in un Paese ancora in pieno medioevo.

Si partiva all’avventura in gruppi vari, scarponi, ombrello, sacco a pelo, bisaccia, kukuri (coltello gorkha), topi (cappello nepalese), borraccia e macchina fotografica, con un programma teorico per singola spedizione di 5/6 settimane, con qualche aspirina, il mexaform per la dissenteria, molti portatori (non di certo sherpa, troppo costosi!) per i materiali, e le controparti governative come aiuti, anche se spesso conoscevano le diverse aree meno di noi.

Il periodo più bello della mia vita, anche se non sono mai andato sopra i 4000 metri, in un Paese dove abbondano i 5000, i 6000, i 7000 e gli 8000.   Un “trekking” a lungo termine, per di più pagato.

Unici compagni di lettura, due libri.   E’ difficile leggere la sera, senza luce elettrica, dopo una giornata di marcia con lavoro di raccolta dati, sempre nella costanza di una levata alle 4/5 del mattino e di un sacco a pelo per terra alle 8/9 di sera.    E poi, la vita pienissima di tutti i giorni, con un mondo bellissimo e sconosciuto da esplorare, pioggia o sole che sia, qualche zanzara o serpente.

I libri, due, dicevo.   Il primo, un libretto (ancora in mio possesso) intitolato “The Anglo – Gorkha  War  1814 – 1816” di Netra Rajya Laxmi Rana, tesi di laurea o di dottorato, appena stampata a cura dell’autore nel 1970.   Una pubblicazione  interessante, la  prima di un nepalese, su un fatto storico importante per il Nepal, marginale per la storia coloniale britannica, pressoché nulla per la storia mondiale.   Avendo visto i residuati di uno scontro di quella guerra lontanissima (cannoni inglesi, fucili e pugnali arrugginiti, bottoni di divise, ecc.) in uno dei miei giri (Sindhuli Garhi), avevo voluto approfondire l’argomento.

Il secondo libro, perso nel corso di vari traslochi, una edizione economica in spagnolo del “Don Quijote”, regalatami da un collega cileno del progetto.    E qui forse ci siamo.   Un Don Chisciotte in lingua originale, letto a rate sotto il cielo himalayano, capito poco e meditato forse.

Qualche correlazione tra le montagne nepalesi e Don Chisciotte?    Forse nessuna, ma il mondo medievale in cui vivevo, se non mi riportava all’epica cavalleresca di Cervantes, certamente mi sospingeva in secoli perduti, in valori temporali diversissimi, in abitudini e costumi dimenticati.   Una logica che annullava gli anni e l’evoluzione tecnologica e sociale della storia.   Un ritorno alla mitica Shangri  - La e, confusamente, ai romanzi di Salgari e alla poetica pastorale del Rinascimento.

Successivamente ho riletto Cervantes anche in italiano e ho capito qualche cosa di più, incominciando qualche meditazione, ma soprattutto sono stato indotto a verificare quanto uno dei miei autori preferiti in assoluto, il grande  Jorge Luis Borges, ha scritto sull’argomento.   Il risultato, in sintesi, è questo (ero tentato di ritrascrivere l’originale in spagnolo!):

PARABOLA DE CERVANTES Y DON QUIJOTE

“Stanco della sua terra di Spagna, un vecchio soldato del re cercò diversione nelle vaste geografie dell’Ariosto, in quella valle della luna ove alberga il tempo perduto nei sogni e nell’idolo d’oro di Maometto che rubò Montalbano.   In mite burla di se stesso, ideò un uomo credulo che, turbato dalla lettura di meraviglie, prese a cercare prodezze e incantamenti in luoghi prosaici che si chiamavano Il Toboso o Montiel.

Vinto dalla realtà, dalla Spagna, Don Chisciotte morì nel suo paese natale intorno al 1614.   Poco tempo gli sopravvisse Miguel de Cervantes.

Per entrambi, per il sognatore e il sognato, tutta quella trama rappresentò l’opposizione di due mondi: il mondo irreale dei romanzi cavallereschi, il mondo quotidiano e comune del secolo XVII.

Non immaginarono che gli anni avrebbero finito di limare la discordia, non immaginarono che la Mancia e Montiel e la magra figura del cavaliere sarebbero stati, per il futuro, non meno poetici dei viaggi di Simbad o delle vaste geografie dell’Ariosto.

Perché al principio della letteratura è il mito, e così alla fine”.

(Clinica Devoto, gennaio 1955, traduzione di Francesco Tentori Montalto, inizio della cecità di Borges)

Borges, bibliofilo, bibliotecario (che sia forse Herne?), professore di letteratura inglese, era un estimatore di Chesterton e su di lui ha espresso giudizi critici molto acuti, sottolineandone in positivo le contraddizioni umane e letterarie.   In primis, per lui, Chesterton,  in nome della ragione (che secondo Borges è in ogni caso la fede cattolica) rifiuta la tendenza alla scrittura kafkiana e scrive parabole eroiche, “ma qualcosa in lui inclinò sempre a scrivere la prima”.   Poi, “non invano dedicò le sue prime opere alla giustificazione di due grandi artefici gotici, Browning e Dickens; non invano ripetè che il miglior libro uscito dalla Germania  era quello dei racconti di Grimm.   Denigrò Ibsen e difese (forse contro ogni possibilità) Rostand………..Emblemi di tale guerra sono le avventure del Padre Brown, ciascuna delle quali vuole spiegare, mediante la sola ragione, un fatto inspiegabile”.

Non la spiegazione dell’inesplicabile, ma del confuso, è il compito che si impongono, generalmente, gli scrittori di romanzi polizieschi:  quindi Chesterton è qualcosa di diverso, è un tendere voluto alla contraddizione che è sempre presente ne Il ritorno di Don Chisciotte, mescolando alternativamente le due anime, quella “razionale” e quella “ideale”.   E così superare anche lo spazio – tempo.

E ora, al romanzo.  


B)   Aspetti generali

Il ritorno di Don Chisciotte è un romanzo “sui generis”.

La trama è appena abbozzata, esile e discontinua, i personaggi principali in alcuni casi appaiono ben delineati, in altri sono sfumati, senza spessore o di maniera, l’intreccio è relativamente slegato, con salti temporali incomprensibili, le contraddizioni sono numerose. Tipico di un’opera a puntate.   Il racconto è tuttavia scorrevole, prevedibile, intriso di bonaria ironia che non degenera in sarcasmo, è spesso divertente e sembra quasi una sceneggiatura per un serial televisivo odierno.   Il tema è palese: il reale si contrappone al fantastico, come nel testo di Cervantes, ma in maniera leggera, scherzosa, senza la drammaticità pensosa dello ieratico “hidalgo” spagnolo.

L’impressione generale è che Chesterton si sia voluto divertire, pur proponendo alcuni dei suoi temi preferiti, ma con un certo disincanto, forse dovuto all’età.   Insomma, una specie di “divertissement” senile, sicuramente rimasto incompiuto sia nelle intenzioni che nella realtà scritturale.

L’aspetto meno riuscito è quello sentimentale fra i personaggi, forzato e innaturale anche in un racconto “leggero”, con un “happy end” di stampo hollywoodiano che francamente sa solo di melenso e poco adatto ai diabetici.

Malgrado il romanzo sia stato scritto a puntate, non mi sembra sensato valutare separatamente o per gruppi i diversi capitoli.   Così si accentuerebbero ancor più le già evidenti discontinuità dell’opera, provocando un frazionamento nel giudizio.

Appare più logico procedere analizzando i diversi personaggi, per concludere con una sintesi comparativa e una opinione personale complessiva.

C) Personaggi               

1)  Il primo personaggio….non è un personaggio.   Si tratta di Seawood Abbey, l’abbazia al centro del racconto.   In verità è un po’ statica, quasi una scenografia teatrale fissa, con il suo fabbricato grigio, il suo giardino, il suo strano monumento, la sua valle e i suoi diversi accessori.   L’unico elemento di variazione nella storia è il cancello perennemente aperto che si chiude nel finale, quando da villa ritorna ad essere una abbazia.    Chesterton ama le scenografie teatrali e ama giocare con i possibili significati dei nomi.   Seawood, legno di mare, può significare in senso metaforico molte altre cose che lascio alla fantasia dei lettori.   In ogni caso Seawood Abbey gioca un ruolo fondamentale nel racconto perché, da protagonista, condiziona e modifica gli avvenimenti e impone agli altri personaggi le variazioni di comportamento.    Immobile, a seconda delle luci, determina gli umori e le decisioni e rimane sempre il punto di riferimento per ogni fatto, in particolare col ritorno alla sua origine sacrale, elemento definitivo e irreversibile della storia.   Uno scenario protagonista che rimane sullo sfondo e, in definitiva, è sempre in primo piano, contraddizione prima del racconto.

2)   Olive Ashley, personaggio sfumato, cenerino come può forse suggerire il nome (ash).    Quale autrice della commedia che muove la storia, dovrebbe stare al centro della trama, essere ben definita, ma così non è.   In effetti, Chesterton, in tutte le sue opere, non costruisce mai molto bene i suoi personaggi femminili, mentre è accurato e indagatore nello scolpire quelli maschili.   In questi, evidentemente, cerca degli approfondimenti caratteriali e spirituali in cui si identifica o identifica i paradossi e le contraddizioni che stanno alla base dei racconti.   I personaggi femminili sono invece, quasi sempre, “di complemento”.   Olive Ashley muove la trama della storia, quasi come una tessitrice di tappeti, ma, allo stesso modo delle tessitrici di tappeti che popolano l’Oriente, rimane sostanzialmente anonima esecutrice.   Poco definita e definibile.   Non sono chiari  i suoi cambiamenti di opinione, le sue motivazioni, le sue indecisioni, i suoi rapporti con Rosamund e, malgrado il roseo finale, neppure i sentimenti verso Braintree.   Attrazione fisica o qualcos’altro, profondo e meditato?    La passione per il Medioevo e per i colori particolari hanno altre valenze, oltre ad un certo romanticismo tardo vittoriano in stile floreale?   Il personaggio dice molto poco, almeno a me, e trovo più che giusto che esca di scena, con le sue sopracciglia scure, quasi danzando verso Milldyke, il grigio quartiere operaio, col suo amore impalpabile come cenere.

3)   Douglas Murrel (Monkey), indiscutibile e formidabile protagonista di tutto il racconto.   E’ il vero eroe positivo che si bilancia senza sforzo fra il reale e l’immaginario.   Così come Sancho Panza è il cuore del Don Quijote di Cervantes, Murrel riesce ad essere il perno (hub, in inglese) su cui ruota la storia.   E’ nobile, d’animo come di lignaggio, e nello stesso tempo uomo comune, vicino ai suoi simili di qualunque natura o condizione sociale siano.   Al servizio degli altri, ma con una personalità assolutamente unica che può definirsi in un solo modo: è un uomo buono, pur con i suoi difetti e le sue imperfezioni, ironico, critico, ma semplice e sempre pronto alla giustizia, quella vera.   Credo che Chesterton si proietti in lui, quasi identificandosene, con un piglio scanzonato che permea di sottile humor il romanzo.   Molte pagine che lo riguardano sono addirittura comiche e surreali al contempo, come la visita ai Grandi Magazzini (i dialoghi con l’ottusa commessa e con il borioso direttore sono un puro capolavoro di scrittura. Non capitano spesso anche a noi, cento anni dopo, simili incontri grotteschi? Io ho vissuto recentemente una cosa simile cercando un certo libro in tre primarie librerie di Verona!) o i magistrali capitoli 9 e 10 ambientati nella piccola cittadina balneare, con cab, dottori pazzi, amore a prima vista, giudice decrepito, scambio esilarante dei dottori e quant’altro ancora.   E infine, la versatilità del personaggio, pur sempre coerente con se stesso, che trasforma in positivo i rapporti con gli altri, siano protagonisti o figure di secondo piano, per svanire con leggerezza verso il proprio destino o nelle pagine mai scritte del romanzo.   Non un “deus ex machina”, ma forse qualcosa di più e meglio.

4)   Julian Archer, l’arciere, il Sagittario.   Altra incredibile figura, di una modernità assoluta.   Più che di un secolo fa, sembra un protagonista dei nostri infelici tempi, proiettati con sussiego verso la pura facciata o l’apparire ad ogni costo.   La vacuità che si fa regola e sistema e che Chesterton mutua in maniera evidente dalla “Fiera delle vanità” di Thackeray, classico ottocentesco della letteratura inglese di costume.

Archer è un personaggio televisivo, dei talk show, dei salotti radical – chic, del Grande Fratello e delle Biennali del cinema.   La sua presenza indigesta ricorda Maurizio Costanzo, Pippo Baudo o Bruno Vespa: come loro disquisisce su tutto, scrive libri, pratica il mondo famoso, la politica, l’arte, la malignità, l’enologia, il pensiero, il festival di Sanremo (?), la sociologia e soprattutto C’E’, sempre in primo piano, con voce impostata e gesto acconcio.   Chesterton gli affida il ruolo, sempre attualissimo, dell’inconsistenza che tonifica le nostre vite di esseri comuni.   Che ci sia qualche nesso col nuovo ducetto Renzi, salvatore della patria, eloquio accattivante e vuoto, mani in tasca e scarso programma?   Speriamo di no, altrimenti Chesterton sarebbe anche un grande profeta, degno di beatificazione, ma Roberto Prisco ed altri (me compreso), questo lo rifiutano.

5)   Rosamund Saverne, in Seawood e in Smith: leggiadra figura contornata da capelli rossi.   Quasi tutte le eroine di Chesterton hanno i capelli rossi, magari non sono mai ben definite né in corpo, né in spirito, ma hanno una corona di capelli rossi.   Una grande bellezza esuberante e regale, che apparentemente sta meglio in costume medievale che in abiti moderni (e lo porta, il costume, metaforicamente e fisicamente per quasi tutto il racconto), ma che al contrario è molto concreta e “al passo coi tempi”.   Un personaggio che incarna al femminile quell’empirismo britannico di tipo scientifico che si può permettere anche di sognare, ogni tanto, l’idealità.   L’empirismo britannico è quella virtù che consente al mondo anglo-sassone un approccio pratico e realistico ai problemi che nei vari periodi storici si pongono sia alla nazione che ai diversi polimeri sociali e che, dal medioevo in poi, ha permesso al Regno Unito di svilupparsi e di superare vittoriosamente i tanti accidenti politici, economici e sociali dei vari secoli trascorsi.   Le guerre con la Francia (soluzione, l’arco lungo), con la Spagna (soluzione, i corsari), le guerre interne, dinastiche, civili e di religione (soluzione, il ruolo del Parlamento e l’habeas corpus), l’opposizione alla rivoluzione francese e a Napoleone (evoluzione legislativa, politica e forza militare organica), la rivoluzione industriale (ricerca, tecnologia e trade unions), l’imperialismo e il colonialismo (gestione pragmatica dei mondi controllati), le più recenti guerre mondiali (vittoria finale), sono solo alcuni esempi dell’empirismo britannico alieno da ideologie e fumose teorie assolutistiche.   Sempre nel rispetto relativo della libertà individuale (right or wrong, my country).   La nostra Rosamund è così: personaggio che ospita il romanzo, che crede con spirito critico alla rivoluzione di Herne, che si converte al cattolicesimo e riconverte in Abbazia l’intera Seawood, che accetta consapevolmente e positivamente il suo nuovo status sociale (Smith), e che si propone infine quale porto sicuro di ritorno per il suo Don Chisciotte cavaliere “errante” (in tutti i sensi).   Bella figura e personaggio propositivo.

6)   Michael Herne, il nostro Don Chisciotte, il dotto bibliotecario.   Anche lui coi capelli rossi, ma molto paleo – ittiti.   Chesterton ne fa un personaggio quasi grottesco, perduto nelle sue letture e fantasie, con vaghi contatti con la realtà e un carico di idealità e valori persino eccessivi.   Non è il protagonista assoluto del romanzo, analogamente al Don Quijote di Cervantes, ma è certamente il personaggio più emblematico perché trasforma l’immaginario in realtà e viceversa, modella in rivoluzione l’utopia, rende possibile l’impossibile e crede sinceramente che il mondo possa essere cambiato.   Bisogna dire che Chesterton è un po’ crudele con lui, lo sbeffeggia e lo fa sbeffeggiare dagli altri personaggi, pur concedendogli una dignità non dissimile da quella del Don Quijote.   E’ un pazzo, e, come tutti i pazzi, ha una sua lucida logica raramente sfiorata dal dubbio.   Solo Murrel e Rosamund, pur razionali e critici, hanno la capacità di incidere sul suo pensiero, proprio perché soggetti positivi e fondamentalmente buoni.   Per il resto, è un simpatico originale che si presta alla sana ironia del racconto, pedina voluta del divertissement chestertoniano, costume medievale incluso, replicante minore del Napoleone di Notting Hill.   Ma di sicuro non ha mai i connotati tragici e le sofferenze del personaggio di Cervantes.

7)   John Braintree, in senso lato “albero delle idee”(brain = intelletto).   E’ uno strano tipo di sindacalista, certamente molto dissimile dai concreti tradeunionisti britannici dell’ottocento (post Robert Owen) e di quelli del novecento che ho conosciuto io al T.U.C. nella preparazione della mia tesi di laurea cinquant’anni fa.   Da bravo ingegnere conosce con esattezza i problemi del suo settore industriale, ma si lascia spesso trascinare dall’idealismo o, meglio, dall’ideologia.  Pur credendosi un socialista o uno pseudo comunista, con barba e cravatta rossa, ha una cultura superiore a molti suoi interlocutori, mantiene un buon equilibrio mentale, scivolando solo saltuariamente nella demagogia.   In fondo, Chesterton ne fa un personaggio ibrido, ma non antipatico o bizzarro.    L’autore ogni tanto lo appoggia nel suo dire e nel suo fare, strizzando l’occhio a noi lettori come a dirci “badate, è un uomo onesto, con tutte le contraddizioni di chi è fondamentalmente un borghese che vuole essere anche un proletario”.   Non si può che sorridere ad un personaggio così:  la sua basica coerenza lo rende positivo, anche se ha la sfortuna di “cadere in amore” (to fall in love) con Olive Ashley, dalla “reazionaria tendenza a sognare” (Chesterton dixit).   In concreto, migliora nell’evolversi della storia, via la barba rivoluzionaria, per perdersi un po’ nel finale (?) sentimental – cinematografico.

8)   Lord Seawood e Lord Eden, personaggi diversi, ma fondamentalmente simili.   Nel racconto rappresentano la nobiltà, più o meno acquisita, e il capitalismo.   Per altri versi, la reazione, il pratico cinismo del potere, il “realismo” che intende poco il mondo reale.   Chesterton disegna bene i loro caratteri, evidenziandone le differenze, ma accomunandoli nel ruolo.   Capiscono poco di quanto avviene attorno a loro e ritengono di controllare la situazione; la vicenda è “altra” rispetto alle loro vite, ma si credono il centro stabile della storia (bellissimi i riferimenti al Tibet e al Guatemala, paesi a me molto cari).   In ultima analisi, i due Lord me li trovo quasi vicini: giudicare il mondo di oggi, vederne i difetti e le contraddizioni, ipotizzare le soluzioni a breve e lungo termine, sono esercizi che ad una certa età si ama praticare.   Solo che non servono a nulla, sono sterili fantasie della vecchiaia, più folli e inconcludenti di quelle di Herne e di Don Quijote.   La realtà pratica strade diverse e raggiunge altre mete, ignorando le nostre diagnosi e le nostre possibili terapie.   L’importante è esserne almeno consapevoli, prima di rifugiarsi nell’oblio dell’Alzheimer.   Lì si può sognare tranquillamente e sparire come i nostri due personaggi fanno nel romanzo.

9)   Personaggi minori (o comparse).   Sono necessari, come in tutte le rappresentazioni.   Alcuni sono ben definiti, come i classici caratteristi dello schermo, bravissimi, ma raramente ci si ricorda il loro nome.   Sono utili per definire un “tipo”, una maschera, una categoria.   Nel nostro romanzo si chiamano Almeric Wister, l’esperto per antonomasia, Hanbury, l’accomodante, Howard Pryce, il calvo e confuso economista, George Carter, il fruttivendolo magnete del Drago Verde, Harcher, il pomposo dirigente  dei Grandi Magazzini,  dottor Hendry, con i suoi colori e le sue teorie strampalate sul daltonismo,  dottor Gambrel, con la sua burbanza teutonica e la teoria sulla Repulsione Spinale, Wotton chirurgo militare, magistrato avvolto in una logica sonnolenta.   Questi i principali, ma si potrebbero aggiungere il Cab e il suo cavallo o la bruna, aquilina figlia di Hendry.   Altri personaggi fanno da sfondo, indistinti ma essenziali come il coro nelle opere liriche (guerrieri con elmi cornuti “partiam, partiam!” o vergini lamentevoli dalle trecce bionde).   Una rappresentazione teatrale, quale è in ogni caso il romanzo, come capita spesso negli scritti di Chesterton.   Un insieme armonico e al contempo ironico e grotesque.

10)   Protagonisti anomali.   Sono due, uno minore, l’altro maggiore, almeno per me.   Il primo gioca una parte essenziale nella trama, ma non sono in grado di giudicarne il peso o l’importanza.   Si tratta dei “favolosi” colori Hendry, alla cui ricerca parte “in tour” il bravo Murrel.   Chesterton attribuisce sempre nei suoi scritti molta importanza ai colori, sia a fini scenografici generali che a caratterizzazioni dei diversi personaggi.   Anche qui i colori condizionano il racconto, passando alternativamente tra il presente e il passato, tra il reale e l’immaginario, ma quale significato o valenza abbiano mi è molto difficile capirlo.   I colori Hendry rappresentano certamente la qualità, l’arte o l’artigianato, la partecipazione umana e si contrappongono agli standardizzati prodotti industriali, privi di anima.   Volessi dar loro una interpretazione alata, consona ai tempi dello scritto, potrei riferirmi al celebre “Gospel of Swadeshi” (Il vangelo dello Swadeshi, apologia dell’autarchia artigianale della famiglia contadina) di Gandhi che, a titolo dimostrativo, si imponeva quotidianamente l’impegno della filatura con l’arcolaio tradizionale come esercizio spirituale individuale della cultura economica rurale indiana da contrapporre alla brutale, anonima produzione della rivoluzione industriale inglese.   Ma questa è solo una mera ipotesi personale.

L’altro protagonista anomalo è lo scontro politico-economico-sindacale che anima Milldyke e il mondo minerario carbonifero.   Qui il discorso si fa quasi serio e, proprio per questo, il romanzo “leggero” non lo affronta compiutamente, né riesce a fornire una qualche spiegazione articolata.   E’ certo che il problema minerario è stato al centro della politica economica dell’Impero Britannico nel decennio successivo alla prima guerra mondiale.   E’ altrettanto vero che l’azione sindacale in questo settore è stata sempre, sul piano storico, l’unica dichiaratamente comunista, fino ad arrivare alla nazionalizzazione dell’intero comparto minerario, e che la National Union of Mineworkers è ancora a tutt’oggi la sola unione sindacale inglese di stampo “politico-marxista”.   Tuttavia Chesterton affronta in modo superficiale l’argomento (vedi il discorso del “sindacalista” Braintree) e risolve l’intera questione con il giudizio “medievale” di Herne che nega il diritto di proprietà delle imprese carbonifere e dei suoi derivati ai Lord “capitalisti”, appoggiandosi al diritto e alle tradizioni corporative (Il Maestro e la creazione di un capolavoro).   Introduce una sorta di terza via, lo strano Distributismo, tra il socialismo e il liberalismo.    L’argomento è debole già di suo, se poi rientra in un campo così complesso, sia per dottrina che per realtà economica, la conclusione chestertoniana è quasi un naufragio.   Il giudizio di Herne somiglia tanto al ritornello di Bandiera Rossa, “il frutto del lavoro a chi lavora andrà”, che va bene in un inno per comizi di qualche decennio fa, ma stona sia come risposta allusivamente seria che come soluzione “allegra” da romanzo – commedia.    Quindi, dimentichiamoci di questo protagonista in sottofondo, ma di troppo peso, e limitiamoci al gradevole, simpatico intreccio del racconto.       

D)   Considerazioni conclusive

Il “Ritorno di Don Chisciotte” è un’opera particolare, eccentrica rispetto alle altre di Chesterton, con una originalità voluta.   Vuole proporre alcuni temi cari allo scrittore, ma lo fa in modo “leggero”, alla “vaudeville”.   Ricorda, in prosa, le operette del primo novecento e della “belle epoque”, ma in stile inglese, secondo lo schema delle più note commedie dell’amico – nemico George Bernard Shaw.   L’autore ha voluto divertirsi, ha scherzato con i suoi abituali paradossi, con i suoi personaggi – tipo, ha parafrasato in chiave comica quanto Cervantes ha fatto in senso tragico.   Troppe le differenze fra gli scrittori, sia per tempi che per mentalità, per poter tracciare una valutazione comparativa.   Va tuttavia sottolineato che il Don Quijote è un’opera compiuta, matura, che, come afferma Borges, tende al mito, mentre il nostro romanzo, volutamente o no incompleto, segue un profilo giornalistico figlio del suo tempo, ma proprio per questo è ancora in buona parte attuale a ottant’anni dalla sua nascita e in alcuni personaggi è addirittura attualissimo.   In ogni caso, il libro è di ottima scrittura, leggibilissimo, intriso di ironia che sfocia spesso nel grottesco, ma mai nel più corrosivo sarcasmo.   E’ una narrativa sana, di buona fattura anche se minore, nettamente superiore a quasi tutta la letteratura odierna “in commercio”, con particolare riguardo a quella italiana, inconsistente e linguisticamente orribile. Chesterton ha, intenzionalmente o forse no, voluto ricopiare l’esempio originale di Erasmo da Rotterdam col suo inarrivabile “Elogio della Follia”.   Nella prefazione dedicata all’amico Tommaso Moro, Erasmo scherza col suo nome dicendo che gli ha ispirato lo scritto per l’assonanza con la voce greca “moria”, ovvero pazzia.   E afferma che, sempre per scherzo, molti grandi classici della letteratura (ne elenca un numero sterminato) si sono concessi una licenza goliardica in cui il paradosso e l’ironia, con leggerezza, la fanno da padroni.    “Dal momento che a chiunque è concesso di prendersi degli svaghi, non vedo perché non debba farlo chi solitamente ha la testa china sui libri. Specie se usa l’ironia per trattare temi seriosi e dipana il suo scherzo in modo che il lettore, a meno che non sia un perfetto babbeo, riesca a trarne più giovamento che dalle cupe riflessioni di certi illustri pensatori”. …..”Certo, non c’è niente di più sciocco che trattare con leggerezza questioni serie. Ma è altrettanto vero che è assai piacevole scherzare, dando intanto a intendere verità tutt’altro che sciocche”.

Chesterton lo ha fatto, il libro mi ha molto divertito e di questi tempi non è facile, e questo è tutto.  

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